
Che io mi trovi qui, io che non sono né storica dell'arte né conoscitrice di santi, a parlare della statua di San Benedetto mentre Giuseppe Ducrot, l'autore dell'opera, se ne sta in silenzio da una parte, dovrà sembrarvi perlomeno strano. Ma è proprio il suo starsene zitto la prima ragione del mio discorsetto. Il fatto è che G.D. dichiara che non ha niente da dire, che avendo già fatto quel che doveva fare, ogni sua parola sarebbe superflua se non impropria, e che d'altronde le opere si compiono in silenzio e una volta compiute non tocca a chi le ha fatte illustrarne in meriti e le intenzioni. E io, da parte mia, non solo gli do ragione ma penso pure che San Benedetto lo avrebbe molto lodato. E infatti nel capitolo della sua Regola dove elenca Gli strumenti delle buone opere non scrive forse: "Non amare le molte chiacchere", e più avanti: "Per amore del silenzio qualche volta ci si deve astenere persino dai buoni discorsi"? Così, senza altro titolo che una lunga amicizia e l'ammirazione per la sua arte, parlo io al posto suo e, assumendo su di me tutta la colpa delle parole, lascio Giuseppe alla beatitudine del suo silenzio, anche perché ha molto lavorato.
Dunque G.D. ha fatto la statua di San Benedetto. Bene, osserviamo la statua. Ma siamo proprio sicuri che questa è la statua di San Benedetto? Sì, è vero, è stata appena inaugurata in quanto tale, ma per quale ragione noi dovremmo credere che questo sia proprio San Benedetto e non un qualche altro santo? Non certo per le fattezze del viso e per una qualsiasi somiglianza fisica (non ci sono notizie sull'aspetto di Benedetto, e nelle rappresentazioni dei santi la loro reale fisionomia è comunque l'ultima cosa che si va a cercare), e neanche per la presenza di particolari attributi (il corvo, per esempio o le verghe o il serpente), quegli attributi che sono appunto il mezzo più sicuro per riconoscere i santi. No, qui si vede solo un pastorale e un manto vescovile – ma di vescovi santi ce ne sono davvero molti. Un manto vescovile che per di più quasi nasconde la tunica e la cocolla, proprio quelle vesti che potrebbero aiutare a riconoscere l'abate Benedetto.
Ma allora questa statua che cos'è, chi rappresenta davvero? Ma come, non lo vedete? È evidente, salta subito agli occhi, questa altro non è che l'autentica, veritiera statua di San Benedetto. Dirò di più, di San Benedetto in spirito. E lo è proprio per quelle ragioni che sembravano smentirlo. Ducrot, infatti, con intuito infallibile, pur mascherato di idiosincrasie, ha capito che per rendere pienamente visibile San Benedetto in spirito e il suo significato nella storia della Chiesa e della civiltà occidentale non c'era latro modo che questo. Ossia toglierlo al suo tempo anagrafico e, da quel santo che è, farlo avanzare, come in realtà è avvenuto, quanto più possibile verso di noi, finché non si ferma sotto il peso di un piviale vescovile – lui che non era stato né vescovo né sacerdote. E in attitudine seicentesca – di quel Seicento che per Ducrot, e non solo per lui, è l'ultimo grande periodo dove è ancora possibile rappresentare i santi – liberato il braccio dall'ingombro del manto, la mano protesa in un gesto cedevole a metà tra l'indicare e il benedire, indirizzare il suo sguardo mite verso quel vasto spazio che c'è tra il cielo e la terra, farlo guardare nel mezzo. Perché San Benedetto è proprio questo guardare e stare nel mezzo, questa operosità che trattiene le cose della terra pur pensando al Cielo, questo insieme di discernimento, senso della misura, chiarezza e accoglienza della tradizione, che è anche il meglio della nostra civiltà. In questa statua di G. D. non ci sono arbitrii interpretativi – la vera arte d'altronde non è mai arbitraria – ma piuttosto un'ubbidienza a qualcosa di necessario. La necessità di fare esistere e di rivelare nello spazio fisico dell'opera le molteplici virtù di San Benedetto, che sono virtù non di evidenza drammatica ma di delicato e sagace equilibrio. Non mera illustrazione dunque, ma storia in movimento. Chiunque voglia guardare, tutto questo può vederlo, come potrebbe vedere anche tante altre cose: il modo di arrotolarsi la tunica sul braccio, per esempio, come di chi si tiri su le maniche per lavorare in libertà, o il pastorale appoggiato con noncuranza alla mano sinistra, qualcosa che è lì, un onore e un potere che in verità non lo riguarda, o anche i drappeggi che scavano in profondità, simili alle volute rocciose dei suoi eremi.
Ma c'è dell'altro. Perché l'identificazione della statua con lo spirito del santo sia completa, bisogna aggiungere che è fatta di bronzo. Forse non tutti sanno quanto lavoro, perizia, esperienza e dedizione siano necessarie perché una statua come questa possa starsene lì sul suo piedistallo per essere ammirata, criticata o ignorata. Mi sono fatta spiegare da Giuseppe, che in questo caso ha parlato, tutti gli stadi attraverso i quali si arriva alla fusione vera e propria, e per meglio capire sono andata con lui in fonderia a vedere da vicino il lavoro dei formatori e dei fonditori. In questa specie di preghiera laboriosa a più voci, attraverso un susseguirsi di creazione e distruzione, di positivo e negativo che cambiando via via materia raggiunge finalmente quell'anima di cera il cui posto verrà preso dal bronzo, ho subito visto un'analogia con le forme di vita monacale istituite da San Benedetto. Il lavoro collettivo, la divisione dei compiti pur nell'uguaglianza, l'ubbidienza reciproca, l'attenzione umile: come dire che la statua incontra il suo santo in un terreno comune, che è quello del fare senza superbia in un movimento continuo di ricostruzione delle rovine, che è appunto la storia stessa di Montecassino. D'altra parte leggendo la vita di San Benedetto, così come è narrata da Gregorio Magno, quel che più colpisce è il genere dei suoi miracoli, quasi mai spettacolari ma intesi soprattutto al risanamento. Benedetto è un santo che accomoda quel che è rotto, recupera quel che è perso, organizza ciò che si disperde e rende leggero quello che pesa, sempre lottando contro le avversità e gli ostacoli, ossia contro il diavolo, e uscendone sempre vincitore. È avvenuto anche un paio di giorni fa, quando il marmo del piedistallo continuava a crollare, sì, a detta di tutti c'era proprio il diavolo col forcone, ma ancora una volta San Benedetto ha vinto e la prova è qui, indubitabile, davanti a noi.
Patrizia Cavalli